Mediatore culturale, chi era costui?
- Paesane
- 21 mar 2018
- Tempo di lettura: 8 min

Anche oggi avviamo la riflessione con qualche domanda, stile brainstorming: ho voglia di strapazzare il mio cervello, così magari attivo la mia expectancy grammar e mi sveglio senza bisogno di un caffè. Penso che i contenuti del corso di “psicologia dell’educazione” siano stati depositati nella mia memoria a lungo termine, a tal punto da aver dimenticato quale fosse la domanda di partenza! La ritrovo subito, ritornando con la mente all’ultimo colloquio avuto con la mediatrice culturale araba e la mamma marocchina di uno studente che, in questo periodo dell’anno, ha deciso di indiavolarsi e di farmi sentire un po’ come Dante. Peccato che io non possa semplicemente svenire e cambiare cerchio, la mia classe è quella, e lì devo restare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non (devo) dimandare.
Il problema
Alì, chiamiamolo genericamente con un nome consono all’ambiente e indicativo dell’origine culturale, risponde in maniera scontrosa, nega l’evidenza e non accetta alcun tipo di rimprovero. Ha 11 anni ed inizialmente pensavo fosse normale, alla sua età, ribellarsi in questo modo all’autorità di genitori o, peggio, di professori onnipresenti! Tuttavia il mio ruolo, mi dicono dalla regia di questo teatro assordante di vita e caos primordiale (a volte mi sembra di lavorare in uno zoo o in una gabbia di matti simpatici e puzzolenti), dovrebbe essere quello di “guidare”, facilitare, aiutare, coadiuvare. Tanti sono i termini che si susseguono negli elenchi aperti alle pagine da studiare, quasi tutti appartengono alla prima coniugazione. Ricordo che la Professoressa di “Storia della lingua italiana” aveva detto che la prima coniugazione è quella più attiva nella formazione di neologismi!
Dicevo, dato che devo coadiuvare e aiutare anche e soprattutto Alì, ora che sta un po’ esagerando con questo atteggiamento diabolico, e visto che la comunicazione con lui appare difficile perché chiuso in un mondo di ritrosia e di negazione totale dell’evidenza, decido di chiamare a colloquio i genitori. Vale qui, per necessità, una parentesi su quel poco che conosco della loro storia.
Alì e la sua famiglia
Il papà di Alì, che chiamiamo Mohamed, nasce e vive in Marocco fino ad un momento preciso in cui decide di trasferirsi in Italia per cercare un lavoro. Non viaggia in barcone, non è clandestino (ma per me non c’è molta differenza. Come se il mezzo scelto per abbandonare casa propria possa farci considerare colui che necessita di aiuto come persona di serie A o serie B; come se tale necessità non fosse già indice di un profondo bisogno d’aiuto; come se, d’altronde, non fosse stata la politica colonialista ad avviare questo processo di distruzione. Ma qui serve un altro articolo…torniamo a Mohamed.) Quando Mohamed arriva in Italia, cerca un lavoro, lo trova come operaio (ancora non si capisce di cosa, dato che nessuno ne parla a scuola e che Alì non sa tradurlo in italiano) e lascia in Marocco una moglie (che chiamiamo Anonìma) e due figli: una ragazzina di nome Kadisja e, appunto, il nostro Alì. Questo nucleo famigliare raggiunge il marito-padre allorché questi, sistematosi decentemente, pensa di potercela fare, con un lavoro, a vivere in Italia.
NAI: vai con le sigle!
Qui nasce il NAI, forse la mia sigla preferita (anche se abusata dai prof che ancora non hanno capito, a mio avviso, che un neo arrivato in Italia ha prima di tutto bisogno di comunicare con i suoi compagni; poi delle Alpi e delle Prealpi poco se ne frega, se in Marocco ha lasciato il Mediterraneo e il Sahara e soprattutto i cugini e i nonni. È chiaro che le Alpi sono bellissime, ma un NAI potrebbe anche impararne i nomi in un secondo momento, magari quando si è ristabilito dallo shock). La Nai Kadisjia, dato che è femmina (!) va molto bene a scuola (in seguito indosserà il velo, come la mamma), viene seguita da un Prof preferenziale e si licenzia con ottimi risultati. Brava la ragazzina, che ora si prende cura di Alì e del terzo fratellino nato in Italia da poco (ecco, lui sì che è italiano, finalmente! Un italiano che parla dialetto marocchino. Mi piace!)
Alì a scuola.
Alì è sempre stato bravo a scuola. Con i suoi limiti ortografici, che gli perdoniamo, s’impegna tanto e ottiene buoni risultati. Ama la storia e la geografia, conosce i parenti di Enrico di Borbone e le mogli di Enrico VIII, apprezza l’astuta mossa di Filippo II e gli dispiace che Elisabetta gli abbia dato acqua, in tutti i sensi! Ora, però, come dicevamo, vuoi per l’adolescenza, vuoi per gli amici “sbagliati”, fa il diavolo a quattro. Per quantificare: copia il tema da internet, copia inglese dal quaderno dell’amica di banco, non fa gli esercizi di francese e non studia più scienze. Gli allego la pagina web da cui ha copiato e, arrabbiato con gli occhi lucidi mi risponde: «Non è mio, non è vero». Davanti a tanto scetticismo rimango senza parole!! Cosa posso mai fare, se non vedi la carta stampata e non riconosci la tua firma? Gli prendo il quaderno da cui sta copiando e requisisco anche il suo; mi risponde «Metti la nota a lei che aveva il quaderno sul banco».
Sinceramente mi viene da ridere, non posso arrabbiarmi, ma devo capire cosa succede. Per questo convoco la famiglia. Papà Mohamed non può venire a colloquio, perché lavora e non può chiedere permessi. Me ne dispiaccio. Dunque, verrà la mamma di Alì (Anonìma, appunto!) Lei però non parla italiano, quindi convoco la mediatrice culturale, un personaggio che mi sta simpatico. È una donna molto bella, parla arabo, italiano e francese e sicuramente anche altre lingue. Si muove disinvolta sui suoi tacchi e porta veli colorati e profumati. Si veste con colori chiari e negli occhi leggo la preoccupazione per suo figlio, che sta diventano un diavolo anche lui!
Il giorno dell’appuntamento, Anonìma arriva con ben quaranta minuti di anticipo e vado nel panico! Il mio panico si tinge di tristezza: Anonìma è una donna, che colpa ha di essere donna? Perché non riesce a spiccicare una parola in italiano? Perché non le nasce il desiderio di capire in che mondo vivono i suoi figli? O magari questo desiderio le è nato, ma non può pagare un insegnante? Ma siamo sicuri che un servizio tale sia a pagamento? Anonìma, forse, non è degna di un nome? O di un’istruzione? Qual è la vita di Anonìma? Dove sono le Anonìme del mondo?
Non è bella la scena di me che faccio uscire Alì dalla classe per tradurre alla mamma che è in anticipo e che deve aspettare finché arriva la mediatrice, occupata in un’altra scuola.
Màriam, mediatrice culturale.
La mediatrice, che chiamiamo Màriam, arriva puntuale, vestita color sabbia. Il velo a strisce blu e rosa le dona, la borsa trasuda libri e fogli, l’abbandona in sala docenti e ci avviamo verso Anonìma che paziente ci attende. Inizia uno spettacolo affascinante.
Cerco di guardare Anonìma negli occhi, ma non posso, i suoi occhi sono altrove, poggiati sul suo cappotto marrone e trasandato. Si vergogna, forse di essere lì, forse di essere una donna. (Non deve, sa, Anonìma? C’è solo tanto profondo rispetto da parte mia e di Màriam, il giudizio non ci appartiene. Siamo qui per l’integrazione e io lo sono davvero). Allora le stacco gli occhi di dosso e parlo con Màriam che poi le riporta tutto in marocchino, con ampi gesti delle mani e delle braccia, con movimenti secchi, asciutti talvolta, altre volte più ampi, come se i significati dovessero abbracciare Anonìma, che sembra vivere in un’isola sperduta dalla quale invia segnali di fumo. Màriam traduce, chissà cosa e chissà come, io intanto ascolto e guardo la differenza tra queste due donne, differenza lampante e triste. Dal colloquio emerge che Alì a casa continua ad essere un angioletto e che gli atteggiamenti da me sanzionati non sono stati evidenziati in ambito famigliare.
Ed ora il salto di qualità, la suspense dei migliori libri: la pietà della mediatrice nei miei confronti. Io la guardo incredula, quando traduce in italiano che Anonìma non sa spiegarsi questi comportamenti. Quindi è Màriam a rendermi la vita semplice e a chiarirmi il suo ruolo all’interno della scuola.
Che cosa vuol dire MEDIATORE CULTURALE?
Mediare è una parola che, da piccola, mi risultava fastidiosa. Dovevo mediare quando mia sorella mi tirava i capelli, dovevo mediare quando non volevo darle i miei jeans nuovi. Dovevo mediare ogni qual volta mi sentivo esplodere! Perché dovevo mediare? O meglio, io non volevo mediare! Volevo essere il tutto!! Egocentrismo fatti avanti, insomma!
Ora però voci autorevoli:
http://www.treccani.it/vocabolario/mediare1/ (soprattutto significato num. 2)
https://www.etimo.it/?term=mediare&find=Cerca
Poi le cose sono cambiate e ora capisco il forte ruolo della mediazione, soprattutto in ambito scolastico. Ci troviamo davanti ad un’altra cultura, quella araba. Affascinante, per me, ma, lo ammetto, sconosciuta. Eppure avevo studiato dal Balboni alcuni tratti salienti di diverse culture, come se catalogarle fosse facile e risolvibile in un breve tomo! (Balboni, La comunicazione interculturale, Venezia, Marsilio, 2007).
Mi era anche piaciuto quel libro, l’avevo trovato divertente e foriero di ulteriori, futuri studi. Poi invece l’ho lasciato un po’ da parte, ora dovrei riprendere proprio da lì.
Màriam mi dice chiaramente “Prof, è normale nella cultura araba negare l’evidenza, si chiama ‘salvare la faccia’, è tipico anche di mio marito!”. Io qui scoppio in una risata interiore per diversi motivi:
Ho scoperto l’arcano che si cela dietro Alì,
Ho scoperto di avere, nella mia memoria a lungo termine, dei ricordi del libro di Balboni di cui parlavo prima (quindi le mie sinapsi funzionano!)
Soprattutto: ho scoperto quanto sia importante la mediazione culturale.
A che sarebbe servito parlare con Mohamed, se fosse venuto a colloquio? (Lui parla italiano, quindi niente traduttrice!) Non mi avrebbe mai detto che è la norma, perché probabilmente neanche lo sa, per lui è la natura, è così e basta!
Balboni diceva che questo tratto di negare l’evidenza è tipico anche italiano (soprattutto italo-greco) solo che qui vi è declinato in forma più lieve. Mentre ricordo che in ambito russo è molto più accettata la verità diretta, nuda e cruda, che ad altri sembra offensiva. Un po’ come quando, in Erasmus, la Professoressa di Letteratura tedesca m’invitava gentilmente, in inglese, a scegliere una traccia per sviluppare una tesina. Solo che lei in inglese era molto cordiale, carina, mi dava suggerimenti: mica io capivo che quei suggerimenti erano ordini celati perché sì, parlavo anche io in inglese, ma con la mente italiana!!!
Insomma, Màriam mi spiega che questo tratto della cultura araba porta Alì, anche e soprattutto perché il padre (marocchino DOC vecchia generazione!) gli fa da esempio, a negare l’evidenza per salvare la faccia nei confronti dei compagni di classe, verso i quali pensa di avere un ruolo simile a quello che ha suo padre per sé. Non si rende conto che i compagni italiani rimangono sbalorditi, (in parte) davanti a questo atteggiamento perché loro stessi, quando colti in flagrante, ammettono a testa bassa l’errore e falsamente chiedono scusa!
Mi fa sorridere l’idea del contrasto culturale che sta vivendo questo ragazzino; mi fa sorridere perché lo considero molto più fortunato, in un certo senso, di alcuni suoi compagni di classe arroccati sull’idea che ‘italiano è meglio’, peccato poi conoscere poco e niente il valore del proprio patrimonio culturale e la storia stessa della formazione del nostro Paese.
Alì vive un contrasto, sì, ma se noi, istituzione scolastica, lo aiutiamo a dimenarsi nel modo corretto, a formare una coscienza sociale e a divenire uomo, il suo patrimonio sarà ricco e vivo. Al contrario, se falliamo, rischiamo di darlo in pasto ai tanti squali leghisti pronti a bloccare la costruzione di una moschea.
Ed è proprio su questi toni che è continuato il colloquio triangolare con Anonìma e Màriam. Màriam ha spiegato ad Anonìma che la scuola è qui per aiutare, e che ad Alì vanno forniti tutti gli strumenti per imparare a muoversi in un territorio che non è più il Marocco e non è arabo. Insomma, Alì dev’essere portato a capire che c’è una cultura per ogni luogo e che tutte vanno bene e vanno rispettate. Alì dev’essere aiutato nella difficile arte della consapevolezza e della scelta migliore per ciascun contesto! Non si sta facendo, qui, un discorso di supremazia, anzi!
Nessuno vuole limitare la cultura personale; il tentativo è semplicemente quello di ampliare le proprie possibilità. Qui entrano la scuola e il ruolo di cui si parlava prima. L’insegnante è anche un mediatore. Mediatore di significati, di cultura, d’informazioni, di sapere. Soprattutto mediatore tra culture.
Grazie, Màriam, per avermi aperto gli occhi!
di Gabriella Imbrici
Grafica: Simona Pollio, Mi senti?
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