L'immagine che uccide
- Paesane
- 21 mar 2018
- Tempo di lettura: 5 min

Immersi nella cultura visuale e fagocitati da continui flussi di informazione,
mi chiedo come ci si possa orientare e muovere consapevolmente nella realtà.
Mi rispondo che per leggere il mondo circostante, è necessario ridurre il Tutto ai suoi elementi essenziali, componendo un alfabeto di parole e di segni semplici.
Quindi da dove partire?
Da un processo primordiale quanto banale: guardo, percepisco e quindi penso e produco.
Cosa produco?
Immagini: dal lat. imago –gĭnis e dalla radice del gr. mimos “imitare”, l’immagine è la rappresentazione degli oggetti corporei,mediata dal senso della vista. Nonostante “Colui che guarda è innanzitutto un interprete” (Bryson 1983), l’immagine riflette le componenti della realtà,secondo metodi e intensità differenti. Uno dei contenuti predominanti nelle immagini di oggi è la violenza. Ed è proprio questo binomio enigmatico immagine – violenza , ad essere il fulcro de “L’immagine che uccide “ di Marie-Josè Mondzain, filosofa francese contemporanea che si interroga sul regime delle immagini con lo scopo di difendere “il pensiero nonostante tutto” (“la pensée malgré tout”). L’autrice riconosce nell’attentato dell’11 settembre l’inaugurazione di un nuovo regime comunicativo di guerra: la vulnerabilità dell’idolatria del visibile viene svelata per mezzo dei suoi stessi simboli e la cultura iconica occidentale entra in crisi.
In seguito agli scenari di distruzione a cui assistiamo inermi, l’immagine viene considerata come un dispositivo di strategie di alienazione e di dominio, come medium di un’ allucinazione privata e pubblica, riformulando il suo potere nei termini di “istigazione a delinquere”. Citando Marie-José Mondzain: “la forza dell’immagine sarebbe quella di spingerci a imitarla. Le si rimproverava di far vedere, ora di far agire.”
E’ l’immagine a dover rispondere degli atti umani? I veri colpevoli sono coloro che uccidono o coloro che diffondono le immagini? In cosa consiste il loro potere ipnotico?
Il visibile sollecita e richiama in superficie la profondità del desiderio e delle passioni umane, invitando ogni individuo ad intraprendere un legame costruttivo o distruttivo con queste forze: “L’immagine non è un oggetto inerte della contemplazione disinteressata, ma un corpo vivente, un’entità energetica che ci attrae o ci respinge, ci incanta o ci ferisce.”
(Teorie dell’immagine – il dibattito contemporaneo, AA.VV., a cura di A. Pinotti e A. Somaini)
Occorre perciò ritornare alla definizione di immagine,a conoscerne la vera natura: in questo modo sarà più semplice distinguere immagini che parlano alle pulsioni distruttrici dell’io e immagini che intendono liberare chi guarda da queste pressioni portatrici di morte.
Marie-Josè Mondzain traccia la storia dell’immagine, sostenendo che l’idea di un’immagine capace di uccidere era presente in numerose tradizioni popolari e mitiche: la fusione mortale di Narciso con il suo riflesso è testimonianza del fatto che l’immagine ci cattura, ci avviluppa fino ad inghiottirci. È la trappola dell’identificazione fusionale con ciò che vediamo ed è solo la produzione di un diaframma, di una distanza, che può tutelarci.
A legittimare il suo statuto e a conferirle un potere redentore, è stato il pensiero cristiano, sostenendo che solo l’immagine è in grado di rappresentare forme allo sguardo partecipante. Tuttavia opera una distinzione: l’immagine che incarna è l’unica che può trasformare la violenza in libertà di pensiero; l’immagine che incorpora invece annulla quella distanza salvifica, quelle istanze che regolano il gesto comunicativo, cioè visibile, invisibile e sguardo che mette in relazione. La chiesa si è servita in modo alternato di operazioni incarnanti e incorporanti: con l’eucarestia, dispositivo incorporante, ciò che viene proposto è la sostanza reale di Dio e chi vi prende parte, diventa tutt’uno con quel corpo immaginario; l’immagine invece di per sé non offre nulla di concreto da consumare. Nell’immagine Dio non è presente: la relazione tra visibile e divino acquista valore e evidenza all’interno della libertà di chi guarda,che può costruire in autonomia il proprio sguardo. “Senza desiderio di vedere, non esiste immagine” e così la chiesa, come anche la propaganda politica e la pubblicità consumistica, stabilisce un’iconografia programmatica e univoca, bloccando sul nascere ogni possibilità di replica o di pensiero.
Marie-Josè Mondzain procede poi a considerare il visibile come apparizione sullo schermo,
il supporto delle immagini. Si inserisce nello spazio sociale e definisce i limiti tra condivisione dello spettacolo e solitudine della visione,assegnando un posto a ciascun spettatore. Per allontanare la minaccia degli effetti negativi messi in atto dallo schermo, è necessario che chi produce le immagini definisca lo spazio della visione nel pieno rispetto delle distanze e del pensiero critico di chi guarda. Perché “la violenza dello schermo comincia quando non si fa più schermo”.
Interessante è il rapporto tra performance e immagini di guerra,che si ha a partire dall’attentato dell’11 settembre con cui si scardina non solo l’ordine del reale, ma anche quello dell’arte e dello spettacolo. Marie-Josè Mondzain riflette sul termine “performance”, definendola a partire da alcuni fattori: processo, risultato, obiettivo, presenza dei corpi e posto assegnato allo spettatore. Ed è proprio quest’ultimo elemento ad avvicinare la performance artistica alla performance di guerra: lo spettatore occupa un posto “passionale” e ciò che si svolge dalla parte del performer, lo coinvolge emotivamente. Se ci soffermiamo sull’etimo della parola, ci accorgiamo che quello messo in atto da una performance non è altro che un passaggio dall’informe verso una forma compiuta e matura.
E,forse azzardando, la prima vera performance è stata la storia cristiana della morte e della resurrezione di Cristo: la passione è il processo ascritto nel tempo e Cristo è il performer che “dà vita” ad uno spettacolo irripetibile,capace di sconvolgere chi vi assiste.
È il concetto di “catarsi” che va recuperato e che può scagionare le immagini di oggi: “mettere in scena cioè una storia conflittuale e omicida” che sappia agire sugli spettatori “in modo che siano liberati dalle pulsioni violente che abitano tutti i soggetti”. La performance quindi trasforma la comunità.
Infine Maria-Josè Mondzain,sondando le possibilità che restano all’immagine di offrire libertà e occasioni di crescita alla società, cita a questo proposito il concetto di “performance catartica” di Abbas Kiarostami. Il regista ha interpretato il Ta’zieh iraniano, festa annuale che celebra la battaglia di Kerbala,la decapitazione dell’imam Hussein e la nascita dell’Islam sciita.
Si tratta di un omicidio storico che fonda l’identità nazionale persiana e Kiarostami ne fa un’istallazione video portata a Roma, a Parigi, a Bruxelles: colloca nello spazio pubblico uno schermo e la cerimonia del Ta’zieh è trasmessa senza sottotitoli. Kiarostami inoltre utilizza due schermi laterali su cui appaiono gli spettatori iraniani divisi per sesso durante il giorno di festa, riproducendo un coro nel senso greco del termine. Nonostante il fine ultimo della manifestazione sia la formazione del guerriero che combatterà i nemici dell’Iran, gli spettatori europei sono comunque emotivamente partecipi alla causa. Ed è proprio questa la forza liberatrice della performance visiva, cioè la sua capacità di attraversare ogni resistenza politica, culturale e razziale e proporsi come gesto di condivisione universale.
Oggigiorno la violenza politica e terroristica occupa tutto lo spazio mediatico e si assiste alla transizione del reale nello spettacolo artistico. Questo perché le forze terroristiche, alla stregua di un artista/esteta moderno, hanno fatto proprie le nuove tecnologie e soprattutto il codice simbolico del cinema americano: la rete e la televisione trasmettono in tempo reale gesti selvaggi ed esecuzioni che determinano la decapitazione simbolica di chi guarda e della sua libertà critica.
Da questo stato dei fatti emerge la necessità di costruire una cultura dello sguardo, capace di dotarsi della “passione di vedere” e della libertà d’interpretazione.
Come sostiene Mondzain, l’immagine oggi “esige una nuova e singolare gestione della parola tra coloro che incrociano lo sguardo nella condivisione delle immagini. [..]Tocca a ciascuno di noi rispondere delle visibilità che mostra, che fa conoscere e che desidera condividere, attribuendo alla voce il posto da cui può farsi sentire lasciando allo spettatore il posto da cui, a sua volta, può rispondere e farsi sentire.”
di Ivana Damiano
Foto: Abbas Kiarostami, Looking at Tazieh.
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