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I volti del Femminismo Islamico

  • Immagine del redattore: Paesane
    Paesane
  • 18 gen 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 19 gen 2018


Raccontare il Femminismo Islamico non è impresa facile. Per alcuni già il nome di questo (relativamente recente) movimento, racchiude in sé una contraddizione in termini. Nel contempo molte attiviste e teologhe scelgono di non autodefinirsi tali (femministe islamiche). Questo perché spesso tale definizione è utilizzata dall’esterno per ragioni di carattere analitico da studiosi che associano il termine alla storia delle donne occidentali. Per capire come affrontare al meglio la questione femminista musulmana è necessario ricordare che esistono oggi tre modelli principali che indirizzano a una diversa visione e considerazione della donna. Un modello tradizionale che segue alla lettera i testi ma che cerca di ridurre le distanze rispetto alla sensibilità moderna. Se pur alcuni diritti vengono riconosciuti alle donne, questioni fondamentali vengono ignorate e rimane comunque invariata la visione di inferiorità della donna rispetto all’uomo. Un modello negazionista, figlio dell’immigrazione e della presa di distanza di alcune giovani donne musulmane nei confronti della loro stessa religione. Si tratta di un percorso di “contaminazione occidentale” che porta queste donne a farsi promotrici di una drastica e radicale riforma dell’Islam accompagnata da una critica dura nei confronti della religione musulmana e conseguente abbandono della stessa. In ultima analisi troviamo il modello interpretativo del femminismo musulmano che di sicuro rappresenta la visione più contemporanea. Mette in atto un importante sforzo interpretativo, con l’intento di sovvertire le narrazioni patriarcali sul ruolo della donna e di mostrare una lettura nuova di Sunna e Corano. È una lettura più contestualizzata e che sprona ad un approccio ermeneutico, per restituire all’Islam la sua dimensione egalitaria. È necessario prendere in considerazione il contesto storico dei testi, riadattarlo al tempo presente e considerare le interpretazioni di imam e sheikh veicolate da una cultura patriarcale che è tempo di cambiare. Queste donne hanno intrapreso un processo di individuazione che assume i contorni di una lotta contro le discriminazioni, per ottenere una reale eguaglianza tra i cittadini. Queste donne vogliono autodeterminarsi e portano avanti con convinzione la tesi secondo cui il Corano stesso affermi un principio di uguaglianza tra uomo e donna. Si pensi alla “rivolta delle donne” ai tempi del Profeta, che (in settanta) manifestarono apertamente la loro indignazione nei confronti dei soprusi dei mariti o alle mogli del profeta Sukayana bint al-Husayn, Um Salama e Aïcha che vengono dipinte come simboli di un movimento di “liberazione della donna”.

Nel contesto attuale esistono varie correnti del femminismo islamico e ognuna di esse porta avanti lotte diverse in base al contesto territoriale e tende, nelle sue correnti meno rigide, ad inserire nel proprio percorso anche istanze LGBT. L’intento comune è comunque quello di mostrare alla società islamica una storia alternativa che vuole sovvertire le narrazioni patriarcali e che fu predicata dal Profeta Muhammad ai tempi della prima comunità islamica.

Fautrici di questo nuovo approccio ermeneutico sono donne come Amina Wadud, Asma Barlas, Riffat Hassan, Karima Bennoune, Fatema Mernissi e tante altre ancora. Donne che intendono rompere il monopolio teologico dell’interpretazione riduzionista del Corano, per preparare la strada della rivendicazione dei diritti delle donne musulmane nell’ambito di una nuova lettura dei testi. Esse rivendicano l’immediata riforma dei codici di legge e delle istituzioni che pongono le donne musulmane in una condizione di inferiorità sulla scia, ad esempio, della progressiva riforma del codice della famiglia avvenuta in Marocco nel 2004.

Tutto ciò sta avendo forte risonanza anche nel dibattito occidentale e ha incanalato le attuali concezioni sul velo. Alcune correnti del femminismo occidentale non vedono di buon occhio la coesistenza di una lotta femminista e precetti religiosi e riconoscono scarsa legittimità a questi gruppi femministi. In un impeto colonialista queste donne pretendono di “liberare” le loro sorelle privandole del velo (hijab), non permettendo loro di autodeterminarsi e assecondando pratiche di repressione che molto hanno di patriarcato. Si tende, in tali correnti, ad escludere le donne musulmane dalla lotta femminista e a discriminare chi nel velo riconosce un simbolo religioso e di appartenenza (situazione che molto spesso vivono le donne immigrate per esempio). Tutto ciò non aiuta ne le donne che si sono autodeterminate coprendosi, ne quelle che subiscono il velo come un obbligo e che hanno bisogno di aiuto per intraprendere un percorso di autodeterminazione.

Dovremmo cercare di spogliarci noi dei tanti pregiudizi e accogliere la lotta di chi vuole intraprendere un percorso così tanto faticoso per poter raggiungere i propri diritti. Diritti universali che possono incontrarsi, nel rispetto della laicità, con percorsi di fede privati e personali che nulla tolgono alla battaglia femminista occidentale ma che anzi vanno a completare un ventaglio di modi di essere che ben descrivono il primo “precetto” della lotta femminista: l’autodeterminazione.



Alexia Santovito


Immagine: Laila Shawa, Hands of Fatima II.

 
 
 

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